Il SUONO degli spettacoli teatrali

la falena

Il SUONO è sicuramente l’aspetto meno conosciuto e forse anche più trascurato degli spettacoli teatrali e spesso, in caso di difficoltà economiche, ci si arrangia “al meglio”.
Quando parlo di spettacolo teatrale intendo spettacolo di prosa. Escludo volutamente l’opera lirica, che ha da secoli il suo equilibrio consolidato a partire dalla composizione e dall’acustica dei teatri lirici. Tutto viene eseguito seguendo la partitura.
Anche il musical è in una categoria a parte, visto che ha bisogno di un impianto di amplificazione adeguato e tendenzialmente radiomicrofoni per tutti. Dal punto di “vista” sonoro è uno spettacolo elettroacustico.
Gli altri spettacoli teatrali invece comprendono una varietà notevolissima di generi e alcuni di loro necessitano un lavoro molto articolato sul suono.
Una volta “la fonica” la gestiva da dietro le quinte il direttore di scena o addirittura il macchinista. Con il tempo è nata la figura del “fonico” o tecnico del suono, lo specialista che segue (in tutti i sensi) lo spettacolo. È la figura che monta l’impianto audio quando lo spettacolo va in tournée e manda “in onda” tutti i contributi sonori, oltre a occuparsi anche dell’eventuale amplificazione delle voci o di strumenti musicali dal vivo.
Più recente è invece un’altra figura che si dedica al suono, il sound designer. È un ruolo creativo nella fase di preparazione dello spettacolo, in stretto contatto con il regista, per dare un’impronta sonora alla messa in scena.
Il termine sound designer (traduzione letteraria: disegnatore del suono) nasce a Hollywood negli anni 70, dove appare nei titoli di coda di film come Star Wars di George Lucas (1977) e Apocalypse now di Francis Ford Coppola (1979). Si era passato da un semplice lavoro sugli effetti sonori e ambienti alla creazione di suoni mai esistiti prima. In questo l’evoluzione tecnologica ha dato il suo notevole contributo.
Per capire meglio l’ambito di lavoro del sound designer, dobbiamo entrare un po’ nel dettaglio di quello che contiene “la colonna sonora” di uno spettacolo di prosa. E mi piace confrontare quello che si sente in teatro con quello che si sente al cinema, perché ci illumina su delle sostanziali differenze.
In primis, tutta la colonna sonora del cinema passa da un impianto audio, non esiste niente di sonoro che non passi attraverso un altoparlante.
In teatro la maggior parte di quello che sentiamo (dal vivo!) arriva alle nostre orecchie acusticamente. Ovviamente ci possono essere musiche, voci, suoni registrati e diffusi con altoparlanti, ma non sarà mai come la colonna sonora di un film, che è un flusso ininterrotto dall’inizio alla fine.
A teatro la continuità sonora è data dalle voci degli attori e dai rumori di scena associati alle loro azioni. I contributi sonori preregistrati si integrano in questa “base live” e devono essere mandati al momento giusto dal fonico dello spettacolo. È proprio l’equilibrio tra suono acustico e quello elettroacustico l’aspetto più delicato. Per equilibrio non intendo solo il volume (intensità) ma anche la qualità timbrica e la corretta provenienza.
Ecco allora che entra in scena il sound designer. Crea i suoni, gli sfondi, elabora effetti sonori,
collabora con il musicista, che compone eventualmente le musiche di scena, forse sceglie le musiche di repertorio insieme al regista e le adatta ai tempi della scena, le raccorda con i suoni,
registra e elabora le voci (fuori campo e/o di commento) e decide come diffonderle nello spazio.
Con la tecnologia di oggi (tendenzialmente i software) i 2 mondi, quello della musica “pura” e quello degli effetti sonori “puri” e cioè realistici, si sono molto avvicinati. Il sound designer tira fuori dal mondo dei rumori anche suoni musicali, mentre il compositore integra nella musica fatta con strumenti musicali, il trattamento “live”, suoni generati elettronicamente, ma anche suoni concreti rielaborati. Il sound designer infatti lavora nella zona “crossover”, tra il rumore e il suono intonato.
Ritorniamo sul rapporto e confronto tra cinema e teatro (il cinema ha tra l’altro influenzato il linguaggio teatrale) per ulteriori considerazione:
Al cinema l’inquadratura è limitata allo schermo (frontale), cambia continuamente e con lei anche la prospettiva sonora delle voci e dei suoni. Questo grazie a un lavoro notevole di postproduzione audio.
In teatro “l’inquadratura” è fissa, cambia casomai con un cambio di scena, tra un atto e l’altro. Siamo noi spettatori che, forse aiutati dalle luci, concentriamo la nostra attenzione su certi punti del palcoscenico, ma volendo vediamo sempre tutto. Chi è più vicino al palcoscenico ovviamente con maggiore nitidezza. Questo vale anche per la percezione sonora.
In queste considerazioni mi sto limitando a spettacoli, che si svolgono sul palcoscenico. Con spettacoli a pianta centrale o con il pubblico circondato da azioni sceniche tutto cambia.
Come già detto prima, il suono associato alle immagini sullo schermo viene diffuso da altoparlanti, che di solito sono 3, ben nascosti dietro lo schermo (microforato, per far passare il suono). Nessuno li vede, ma garantiscono che il suono venga associato al film.
In teatro invece la visuale deve essere libera e finisce che siamo costretti a “piazzare” una cassa a sinistra e una a destra in proscenio. Per la colonna musicale di commento questo tipo di sistemazione è accettabile, mentre per una maggiore integrazione dei suoni registrati dentro l’azione scenica e una prospettiva sonora credibile sono indispensabili dei diffusori acustici anche all’interno della scena. Come sistemarli dipenderà sia dalla scenografia, ma anche dal tipo di messa in scena. La loro presenza potrebbe essere dichiarata e potrebbero essere addirittura manipolati dagli attori.
Molto più delicata è la questione amplificazione dal vivo di voci, strumenti e suoni prodotti in scena. Problemi tecnici (effetto Larsen) impongono di posizionare gli altoparlanti sempre più avanti dei microfoni che riprendono in suono. Ecco perché gli altoparlanti usati per l’amplificazione stanno necessariamente in proscenio. Purtroppo per questo motivo spesso le voci degli attori non le sentiamo nella posizione in cui parlano, ma le sentiamo dove stanno gli altoparlanti. Le dimensioni di questo articolo, che tra l’altro si rivolge a un pubblico non esperto, non permettono di spiegare il fenomeno, e tantomeno far comprendere un riuscito esempio di come superare il dilemma. Ma posso dire, che grazie a un sistema tecnologicamente molto avanzato, chiamato wavefield synthesis, e il sostegno di un grande regista come Luca Ronconi con alle spalle il Piccolo Teatro di Milano, ho curato il suono di due spettacoli, Il PANICO di Spregelburd (2013) e CELESTINA (2014) , nei quali avveniva il “miracolo” di far sembrare le voci amplificate provvenire dalle posizione in cui venivano generate, ovvero dagli attori in scena. Esattamente questo mi aveva chiesto Ronconi, per evitare che la presenza di tanti peronaggi in scena contemporaneamente potesse impedire al pubblico di individuare chi parlasse.
Vorrei aggiungere, a titolo autobiografico, che Luca Ronconi è stato il regista con il quale ho allestito più spettacoli in assoluto, in un periodo di quasi 30 anni. E la mia carriera è stata sicuramente influenzata positivamente dopo il primo spettacolo realizzato con lui nel 1986.
E mi piace sottolineare per i lettori della Falena, che questo spettacolo, IGNORABIMUS di Arno Holz, si è realizzato proprio al Fabbricone di Prato, coprodotto dal Teatro Metastasio. Uno spettacolo insolito di 12 ore. Impegnativo anche dal punto di vista sonoro: ca. 400 effetti sonori, tutti gestiti con tecnologia analogica, dal mixer ai registratori a bobina tipo REVOX. Già allora la spazializzazione dei suoni era fondamentale per me, con tutte le difficoltà per i limiti dei mezzi rispetto a oggi. Ma in uno spazio così concreto, “reale” e profondo, con un pavimento di asfalto e marmo, i muri in muratura e vetrate vere, un impianto stereo frontale non era concepibile.

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